Nei due articoli precedenti abbiamo detto che l’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle soluzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente pochi per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile (Pompili, 2008b). Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita.
Secondo Shneidman (1996) ci sono degli ELEMENTI che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:
- Lo scopo del suicidio è trovare una soluzione; non si tratta mai di un atto privo di fine. Si riferisce invece al voler uscire da una crisi, da una situazione insopportabile che genera il dolore psicologico;
- Il fine del suicidio è quello della cessazione della coscienza. Si può meglio comprendere il suicidio se lo si considera come un atto che abolisce la coscienza dell’individuo dove alberga il dolore mentale insopportabile e perciò si propone come la migliore soluzione per l’individuo. È questa la miscela esplosiva per il suicidio, ossia il momento in cui l’individuo, abbandonate altre possibilità di soluzione, inizia l’organizzazione dell’atto letale;
-
Lo stimolo al suicidio è il dolore psicologico. Se la cessazione è ciò che l’individuo cerca di ottenere, il dolore psicologico è ciò da cui l’individuo cerca di fuggire. Nei suicidi si ritrova, ad un’attenta analisi, la combinazione tra volere la cessazione della coscienza e l’allontanamento dal dolore psicologico insopportabile. Il suicidio non esita mai dai momenti felici. I pazienti descrivono tale dolore in molti modi come:
- “Sono morto dentro,“Sentivo un dolore fortissimo dentro”; “Sentivo onde di dolore propagarsi nel mio corpo”. Il suicidio è una risposta ad appannaggio esclusivo dell’uomo nei confronti di un dolore psicologico estremo. Se si riduce il livello di sofferenza il suicidio non si verifica;
- Lo stressor comune nei suicidi si riferisce ai bisogni psicologici insoddisfatti. Paradossalmente, il soggetto suicida tenta la carta del suicidio per soddisfare bisogni psicologici vitali rimasti frustrati. Questo porta nuovamamente a concludere che possono esserci molte morti nelle quali manca la motivazione del soggetto (incidenti, morti naturali), ma ogni suicidio riflette alcuni bisogni psicologici non soddisfatti;
- Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano “Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo);
- Lo stato cognitivo tipico del soggetto suicida è l’ambivalenza. I soggetti suicidi sono caratterizzati dall’ambivalenza tra la vita e la morte fino al compimento dell’atto letale. Sebbene si apprestino alla morte desiderano ardentemente essere salvati;
- I soggetti suicidi presentano uno stato di costrizione mentale. Il suicidio può essere compreso come uno stato di costrizione psicologica transitoria che coinvolge le emozioni e l’intelletto. I soggetti suicidi infatti affermano “Non c’era altro che potessi fare”, “L’unica via di uscita era la morte”, “L’unica cosa che potessi fare era uccidermi”. È questa la visione tunnel di cui spesso si parla, nella quale vi è un restringimento del campo delle opzioni disponibili; e nel quale la mente è sintonizzata su due sole possibilità: una soluzione lieta (quasi magica) oppure la cessazione, il suicidio. In questi casi vige la legge del tutto o del nulla.
- L’azione tipica dei suicidi è la fuga, un esodo da qualcosa di angosciante;
- L’atto interpersonale tipico dei soggetti suicidi è la comunicazione dell’intenzione. Dalle prime autopsie psicologiche è emerso che nelle morti equivoche, poi classificate come suicidi, veniva comunicato l’intento suicidario in modo più o meno esplicito. Questi soggetti, piuttosto che comunicare ostilità, rabbia o depressione, comunicavano verbalmente o con il loro comportamento il fatto che si sarebbero uccisi;
- I pattern del suicidio sono assimilabili agli schemi adattativi della vita dell’individuo suicida. In altre parole, osservando come una certa persona si è comportata in altri momenti difficili della propria vita si può prevedere come quella persona si approcci al suicidio. Probabilmente durante altre difficoltà quella persona ha sperimentato la tendenza al pensiero dicotomico e alla fuga dal dolore. Sebbene il suicidio, per definizione, sia un evento mai sperimentato in precedenza, possiamo indagare la mente dei soggetti nei confronti del gesto letale analizzando lutti, separazioni, perdite di vario genere.
Il suicidio ha portato via milioni di vite nel corso dei secoli e la sua comprensione rimane ancora parziale. Abbiamo però oggi un bagaglio di conoscenze che ci permettono di approcciarci ad una prevenzione concreta. La corretta gestione del soggetto in crisi da parte dei curanti pone le basi per un’effettiva prevenzione.
Sebbene esista una chiara associazione tra disturbo psichatrico e suicidio è vero anche il contrario. Molti soggetti non sono depressi in senso stretto; sono tristi, angosciati per un problema che ai loro occhi non ha soluzione. Etichettarli precocemente come affetti da depressione li destina ad un percorso nel quale il rischio di suicidio è solo marginalmente affrontato. Il suicidio non dovrebbe mai essere considerato un sintomo di un certo disturbo psichiatrico, piuttosto una dimensione frequentemente associata alle problematiche psichiatriche.
Spesso l’enfasi non è tanto sulle emozioni negative degli individui suicidari e sulla possibilitá di ascoltare il loro dolore e dunque aiutarli. Si preferisce invece gestire un certo disturbo per il quale i protocolli indicano una precisa terapia, sicuri di agire anche contro il suicidio. Una visione fenomenologica del suicidio è invece auspicabile per meglio comprendere la vergogna, la colpa, l’abbandono, la disforia e il sentimento di disperazione (hopelessness).
Probabilmente, eseguendo un’indagine ad hoc sul suicidio e sottolineando il ruolo delle emozioni negative si puó fare di piú.
Dovremmo essere empatici e “risuonare” con il dolore mentale del paziente considerando “l’unicitá” della sua sofferenza. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per cambiare anche di poco il dolore da ‘intollerabile’ e ‘insopportabile’ a ‘quasi sopportabile’ e ‘tutto sommato sopportabile’; nel far questo l’enfasi dovrebbe essere sui bisogni psicologici frustrati dai quali origina la sofferenza del soggetto a rischio.
(da M.Pompili)