del SUICIDIO… 3 – quali cause?

Nei due articoli precedenti abbiamo detto che l’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle soluzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente pochi per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile (Pompili, 2008b). Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita.

Secondo Shneidman (1996) ci sono degli ELEMENTI  che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:

  1. Lo scopo del suicidio è trovare una soluzione; non si tratta mai di un atto privo di fine. Si riferisce invece al voler uscire da una crisi, da una situazione insopportabile che genera il dolore psicologico;
  2. Il fine del suicidio è quello della cessazione della coscienza. Si può meglio comprendere il suicidio se lo si considera come un atto che abolisce la coscienza dell’individuo dove alberga il dolore mentale insopportabile e perciò si propone come la migliore soluzione per l’individuo. È questa la miscela esplosiva per il suicidio, ossia il momento in cui l’individuo, abbandonate altre possibilità di soluzione, inizia l’organizzazione dell’atto letale;
  3. Lo stimolo al suicidio è il dolore psicologico. Se la cessazione è ciò che l’individuo cerca di ottenere, il dolore psicologico è ciò da cui l’individuo cerca di fuggire. Nei suicidi si ritrova, ad un’attenta analisi, la combinazione tra volere la cessazione della coscienza e l’allontanamento dal dolore psicologico insopportabile. Il suicidio non esita mai dai momenti felici. I pazienti descrivono tale dolore in molti modi come:

    1. “Sono morto dentro,“Sentivo un dolore fortissimo dentro”; “Sentivo onde di dolore propagarsi nel mio corpo”. Il suicidio è una risposta ad appannaggio esclusivo dell’uomo nei confronti di un dolore psicologico estremo. Se si riduce il livello di sofferenza il suicidio non si verifica;
    2. Lo stressor comune nei suicidi si riferisce ai bisogni psicologici insoddisfatti. Paradossalmente, il soggetto suicida tenta la carta del suicidio per soddisfare bisogni psicologici vitali rimasti frustrati. Questo porta nuovamamente a concludere che possono esserci molte morti nelle quali manca la motivazione del soggetto (incidenti, morti naturali), ma ogni suicidio riflette alcuni bisogni psicologici non soddisfatti;
    3. Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano “Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo);
    4. Lo stato cognitivo tipico del soggetto suicida è l’ambivalenza. I soggetti suicidi sono caratterizzati dall’ambivalenza tra la vita e la morte fino al compimento dell’atto letale. Sebbene si apprestino alla morte desiderano ardentemente essere salvati;
    5. I soggetti suicidi presentano uno stato di costrizione mentale. Il suicidio può essere compreso come uno stato di costrizione psicologica transitoria che coinvolge le emozioni e l’intelletto. I soggetti suicidi infatti affermano “Non c’era altro che potessi fare”, “L’unica via di uscita era la morte”, “L’unica cosa che potessi fare era uccidermi”. È questa la visione tunnel di cui spesso si parla, nella quale vi è un restringimento del campo delle opzioni disponibili; e nel quale la mente è sintonizzata su due sole possibilità: una soluzione lieta (quasi magica) oppure la cessazione, il suicidio. In questi casi vige la legge del tutto o del nulla.
    6. L’azione tipica dei suicidi è la fuga, un esodo da qualcosa di angosciante;
    7. L’atto interpersonale tipico dei soggetti suicidi è la comunicazione dell’intenzione. Dalle prime autopsie psicologiche è emerso che nelle morti equivoche, poi classificate come suicidi, veniva comunicato l’intento suicidario in modo più o meno esplicito. Questi soggetti, piuttosto che comunicare ostilità, rabbia o depressione, comunicavano verbalmente o con il loro comportamento il fatto che si sarebbero uccisi;
    8. I pattern del suicidio sono assimilabili agli schemi adattativi della vita dell’individuo suicida. In altre parole, osservando come una certa persona si è comportata in altri momenti difficili della propria vita si può prevedere come quella persona si approcci al suicidio. Probabilmente durante altre difficoltà quella persona ha sperimentato la tendenza al pensiero dicotomico e alla fuga dal dolore. Sebbene il suicidio, per definizione, sia un evento mai sperimentato in precedenza, possiamo indagare la mente dei soggetti nei confronti del gesto letale analizzando lutti, separazioni, perdite di vario genere.

    Il suicidio ha portato via milioni di vite nel corso dei secoli e la sua comprensione rimane ancora parziale. Abbiamo però oggi un bagaglio di conoscenze che ci permettono di approcciarci ad una prevenzione concreta. La corretta gestione del soggetto in crisi da parte dei curanti pone le basi per un’effettiva prevenzione.

    Sebbene esista una chiara associazione tra disturbo psichatrico e suicidio è vero anche il contrario. Molti soggetti non sono depressi in senso stretto; sono tristi, angosciati per un problema che ai loro occhi non ha soluzione. Etichettarli precocemente come affetti da depressione li destina ad un percorso nel quale il rischio di suicidio  è solo marginalmente affrontato. Il suicidio non dovrebbe mai essere considerato un sintomo di un certo disturbo psichiatrico, piuttosto una dimensione frequentemente associata alle problematiche psichiatriche.

    Spesso l’enfasi non è tanto sulle emozioni negative degli individui suicidari e sulla possibilitá di ascoltare il loro dolore e dunque aiutarli. Si preferisce invece gestire un certo disturbo per il quale i protocolli indicano una precisa terapia, sicuri di agire anche contro il suicidio. Una visione fenomenologica del suicidio è invece auspicabile per meglio comprendere la vergogna, la colpa, l’abbandono, la disforia e il sentimento di disperazione (hopelessness).

    Probabilmente, eseguendo un’indagine ad hoc sul suicidio e sottolineando il ruolo delle emozioni negative si puó fare di piú.

    Dovremmo essere empatici e “risuonare” con il dolore mentale del paziente considerando “l’unicitá” della sua sofferenza. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per cambiare anche di poco il dolore da ‘intollerabile’ e ‘insopportabile’ a ‘quasi sopportabile’ e ‘tutto sommato sopportabile’; nel far questo l’enfasi dovrebbe essere sui bisogni psicologici frustrati dai quali origina la sofferenza del soggetto a rischio.

                                                                                                                             (da M.Pompili)

  4. fibro

del SUICIDO … 2 – il dolore mentale

 

 

La suicidologia é la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio  e alla sua prevenzione (essa si riferisce anche a tutte le manifestazioni correlate al fenomeno suicidario). Il termine (e il concetto) fu introdotto da Edwin Sheneidman (1964). La suicidologia dunque, diversamente da altre scienze, quali ad esempio quelle del comportamentismo, non include meramente lo studio del suicidio ma enfatizza la prevenzione dell’atto letale; in altre parole incorpora interventi appropriati per prevenire il suicidio, una caratteristica non sempre riconoscibile ed esplicitata nei notevoli contributi sul tema.

Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale insopportabile , che chiama psychache (Shneidman 1993a), che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce che le domande chiave possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un dolore mentale insopportabile, allora il compito principale di colui che é deputato ad aiutare l’individuo é alleviare questo stato con ogni mezzo a disposizione. (Shneidman 2004; 2005). Se infatti si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere. Shneidman (1993a) inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, ecc. hanno origine dai bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che ne deriva ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalitá e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come  affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati, compresi e ricevere conforto. Shneidman (1985) ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione.

La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in una stato chiamato genericamente stato perturbato, nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto suicida (Pompili, 2009) . Shneidman (1996) ha inoltre  suggerito che il suicidio è meglio comprensibile se considerato non come un movimento verso la morte ma come un movimento di allontanamento da qualcosa che è sempre lo stesso: emozioni intollerabili, dolore insopportabile o angoscia inaccettabile, in breve psychache. Se dunque si riesce a ridurre, ad intaccare e a rendere più accettabile il dolore psicologico quell’individuo sceglierà di vivere.

Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni per risolvere un certo problema che causa sofferenza estrema. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; ma alla fine, fallite tutte le altre possibilitá, la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.

                                                                                                                             ( da M.Pompili)

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del SUICIDIO……1

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera il suicidio come un problema complesso, non ascrivibile ad una sola causa o ad un motivo preciso. Sembra piuttosto derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali. Il suicidio, nell’ambito della salute pubblica, è un grave problema che potrebbe essere in gran parte prevenuto; costituisce la causa di circa un milione di morti ogni anno, con costi stimabili in milioni di euro, secondo quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanitá. Nel 2000, circa un milione di individui ha perso la vita a causa del suicidio, mentre un numero di individui variabile da 10 a 20 volte più grande ha tentato il suicidio. Ciò rappresenta in media una morte per suicidio ogni 40 secondi ed un tentativo di suicidio ogni 3 secondi.

Questo ci porta a concludere che muoiono più persone a causa del suicidio che per i conflitti armati di tutto il mondo e per gli incidenti automobilistici. In tutte le nazioni, il suicidio è attualmente tra le prime tre cause di morte nella fascia di età 15-34 anni, infatti, pur riguardando tutte le fasce di età, a tutt’oggi è un fenomeno che interessa maggiormente i giovani. E’ dunque un fenomeno che non può essere ignorato, e vi è la necessità di infrangere quel silenzio deleterio che si sviluppa intorno a tale tema. Secondo quanto affermato da un documento dell’OMS, il suicidio è un problema di grande entità nei paesi europei, soprattutto tra i nuovi stati indipendenti dell’Europa dell’est.

Lo studio scientifico del suicidio, noto come suicidologia, può essere fatto risalire al 1957, quando Shneidman e Farberow pubblicarono il loro articolo sulle note di suicidio. Riproduzioni di note di suicidio sono state pubblicate almeno dal 1856 (Shneidman, 1979), ma ciò che rese unico lo studio di Shneidman e Farberow fu l’uso pionieristico di note di suicidio di “controllo”, cioè note di suicidio simulate, fornite da individui non suicidi, messe a confronto “in cieco” con note di suicido vere. Il Metodo di Differenza di Mill, il fulcro della scienza induttiva, fu per la prima volta applicato al campo del suicidio.Ognuno dovrebbe saper riconoscere i segnali d’allarme per il suicidio.

Possibili SEGNALI D’ALLARME. Spesso il soggetto a rischio di suicidio si presenta con pensieri identificabili con le seguenti espressioni:

  • “Sono triste, depresso”,

  • “Vorrei essere morto”,

  • “Mi sento solo”,

  • “Non riesco a fare nulla”,

  • “Non posso più andare avanti così”,

  • “Sono un perdente”,

  • “Gli altri staranno meglio senza di me”.

Colui che desidera o minaccia di farsi male o di uccidersi ed è in cerca di mezzi come armi da fuoco, farmaci o altro, e che parla della morte, cosa insolita per tale persona, dovrebbe indurre la considerazione di un alto rischio di suicidio.

Inoltre, un alto rischio di suicidio è associato a sentimenti di disperazione, rabbia incontrollabile; alla ricerca di vendetta, all’agire in modo imprudente o rischioso e senza meditare sulle conseguenze di un certo comportamento, al sentirsi intrappolati e sentirsi senza via d’uscita. Il rischio è poi associato al consumo di alcol e droga; all’allontanamento dalle amicizie, dalla famiglia, e dai contatti sociali; ansia, agitazione e disturbi del sonno sono sempre identificabili in presenza di rischio di suicidio.

 L’individuo a rischio spesso riferisce cambiamenti marcati del tono dell’umore, mancanza di motivazione nel vivere e della non identificazione del senso della vita. Il suicidio si può prevenire. La maggior parte degli individui con rischio di suicidio vuole assolutamente vivere; costoro non riescono, però, a trovare possibili alternative ai loro problemi. La maggior parte degli individui emette chiari segnali inerenti alla loro intenzione suicida, ma spesso gli altri non colgono il significato di tali messaggi, oppure non sanno come rispondere alla loro richiesta d’aiuto. Parlare del suicidio non induce nell’altro un proposito suicidario; al contrario, l’individuo in crisi e che pensa al gesto si sente sollevato dal poterne parlare, ed ha l’opportunità di sperimentare un contatto empatico. Il suicidio affligge profondamente gli individui, le famiglie, i luoghi di lavoro, la comunità e la società nel suo complesso.

Coloro che perdono un loro caro a causa del suicidio, rimangono a lungo traumatizzati e sono anch’essi a rischio di suicidio. La sfida della prevenzione del suicidio dovrebbe essere intrapresa dalla collettività. Gli addetti alla salute mentale e tutti gli operatori che entrano in contatto con la popolazione generale, per fornire servizi di assistenza, consulenza e supporto, dovrebbero essere coloro che veicolano informazioni chiare e precise sul riconoscimento e sulla gestione del soggetto suicida. Campagne di sensibilizzazione a livello nazionale proposte dalle autorità competenti dovrebbero essere estese a tutta la popolazione, rispettando le guidelines proposte ai mass-media per la diffusione di servizi e reportage riguardanti il fenomeno suicidario.

fibro

 

L’AZIENDA E L’EVENTO SUICIDARIO

azienda benessere psicologa gabriella castagnoli

Quando un evento stressogeno come quello suicidario accade in azienda non possiamo non prendere in considerazione l’impatto sul gruppo di lavoro. Dopo la fase iniziale di crisi connotata dell’evento,dalle indagini e dal rito funebre, , possiamo aspettarci che i colleghi, anche se non a stretto contatto con la persona scomparsa, manifestino pensieri di colpa, lutto e rabbia anche se con modalità differenti tra loro. Qualcuno si esprime direttamente mentre altri sembrano non essere toccati dall’evento ma occorre sapere che si tratta di modalità diverse di reazione all’evento e che chi si occupa di risorse umane deve tener d’occhio la situazione e prestare un ascolto attento a quanto accade . Rispetto e sensibilità sono chiavi necessarie per facilitare un rientro al lavoro con buon esito. Le linee guida e la ricerca ci dicono che occorre fornire adeguate informazioni (educazione) sul suicidio assicurandosi che i lavoratori ne abbiano ben compreso la complessità e che si rassicurino che non potevano fare nulla di più di quello che hanno fatto. Possiamo attivare un gruppo di supporto ed eventualmente un gruppo di mutuo auto aiuto che permetta di portare avanti la condivisione alla pari. Può essere utile predisporre un supporto individualizzato per chi ne fa richiesta. E’ altresì importante tener d’occhio le performances lavorative e le modalità relazionali quotidiane in quanto variazioni repentine o eccessive possono indicarci difficoltà connesse all’evento che potrebbero trasformare le difficoltà personali in difficoltà lavorative e quindi inficiare il servizio offerto dall’azienda. Può essere opportuno un follow up di verifica dopo 3 – 6 mesi e a 1 anno.

suicidio: e i survivors?

Ma che fare per coloro che rimangono dopo aver perso un caro a causa del suicidio , i cosiddetti survivors?

Ma che fare per coloro che rimangono dopo aver perso un caro a causa del suicidio , i cosiddetti survivors? I sopravvissuti sono la più grande comunità di vittime con disturbi mentali connessi al suicidio (Shneidman, Ph.D.,Fondatore dell’American Association of Suicidology). I dati divulgati dall’American Association of Suicidology stimano che per ogni suicidio ci sono almeno 6 persone che vengono intaccate da questo evento e si tratta di un numero che sottostima il fenomeno. La perdita di una persona cara per suicidio è scioccante, dolorosa e inaspettata. Quest’esperienza è un processo individuale molto complesso, che si verifica in tempi diversi. Il dolore non segue sempre un percorso lineare e non necessariamente progredisce e si risolve. Non ci sono indicazioni su quando tale dolore si risolverà. La colpa per non aver fatto abbastanza per prevenire il gesto è un rimprovero che spesso queste persone manifestano. La rabbia verso il defunto è spesso identificabile, a causa dell’aver subito le conseguenze di un gesto egoistico. Sentimenti di disconnessione accompagnano, poi, il dolore di queste persone; infatti, spesso, il poter rievocare ricordi lieti e pensare che, se avesse potuto, la persona scomparsa sarebbe stata ancora presente, non è un processo attuabile per i sopravvissuti del suicidio. Non deve, inoltre, sfuggire la stigmatizzazione che queste persone devono affrontare, motivo di ulteriore sofferenza causato dalla società (Minerva Psichiatr. 2007;48:99-118 Pompili M.,Tatarelli R.). A seguito di un evento così drammatico, le relazioni dei survivors con le persone si trasformano. Mente e corpo spesso soffrono contemporaneamente, il linguaggio delle parole sembra non bastare per esprimere i sentimenti ed il dolore. Le persone che hanno subito un lutto di questo tipo, da subito avvertono la necessità di capire più a fondo il senso della vita e del perché tutto ciò sia accaduto. Il mondo esterno spesso risulta distante, e a volte si incontrano pregiudizi culturali che hanno radici storiche e religiose. Il mondo della comunicazione non sempre riesce ad essere sufficientemente rispettoso e ci si trova a vivere in una realtà che, oltre a rari momenti di sincera comprensione, fornisce giudizi pietistici ed a volte sprezzanti verso chi si è tolto la vita. Ai familiari ,amici e colleghi viene instillato un senso di vergogna, di disagio, di distanza, proprio quando si avrebbe bisogno di vicinanza, solidarietà e rispetto.

psicologa a bologna gabriella castagnoli

SUICIDIO: quali fattori protettivi?

La Regione Emilia Romagna nella “Raccomandazione per la prevenzione delle condotte suicidarie nel territorio” individua il suicidio come un comportamento plurideterminato, spesso associato ad aspetti psicopatologici che, se riconosciuti e trattati, possono determinare una significativa diminuzione del rischio. Individua inoltre dei fattori di protezione dal rischio : supporti sociali intatti, appartenenza religiosa attiva o fede religiosa ( che può anche essere un fattore di rischio se implica vergogna/senso di colpa per i comportamenti), matrimonio e presenza di figli a carico, rapporto continuativo di supporto con un caregiver ( in relazione alla qualità del rapporto), relazione terapeutica positiva (APA, 2003), assenza di depressione o abuso di sostanze, accesso a risorse sanitarie mediche e di salute mentale, controllo degli impulsi, comprovate capacità di problem-solving e di coping (porre attenzione a variazioni repentine della capacità del paziente di far fronte ai problemi), gravidanza (APA, 2003), life satisfaction (APA, 2003), sollievo per non aver completato il suicidio (NZGG, 2003), sensazione di avere progetti/compiti ancora da completare (NZGG, 2003), buona autostima, fiducia in se stessi (NZGG, 2003), consapevolezza che le figure significative di riferimento sanno dei pensieri suicidari (NZGG, 2003), senso di appartenenza a un gruppo, ad una associazione, ad un partito politico o religione (Sargent, Williams,Hagerty, Lynch-Sauer & Hoyle., 2002).

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SUICIDIO E CONDOTTE SUICIDARIE

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera il suicidio come un problema complesso, non ascrivibile ad una sola causa o ad un motivo preciso. Sembra piuttosto derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali. Shneidman definisce il sucidio nel mondo occidentale “ …un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione.”(1985). Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano :“Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo)” .Nell’ambito della salute pubblica, è un grave problema che potrebbe essere in gran parte prevenuto; costituisce la causa di circa un milione di morti ogni anno, con costi stimabili in milioni di euro(OMS). Nel 2000, circa un milione di individui ha perso la vita a causa del suicidio, mentre un numero di individui variabile da 10 a 20 volte più grande ha tentato il suicidio e le stime suggeriscono che nel 2020 le vittime potrebbero salire a un milione e mezzo. Questo ci porta a concludere che muoiono più persone a causa del suicidio che per i conflitti armati di tutto il mondo e per gli incidenti automobilistici. In tutte le nazioni, il suicidio è attualmente tra le prime tre cause di morte nella fascia di età 15-34 anni, infatti, pur riguardando tutte le fasce di età, a tutt’oggi è un fenomeno che interessa maggiormente i giovani. (Pompili, 2006).

l suicidio è il risultato dell’interazione di molti fattori e quindi può essere combattuto in modi molti diversi. Occorre ricordare che ognuno può fare qualcosa per aiutare a ridurre il numero di persone che tentano di risolvere il loro dolore con il suicidio. Partire da un’informazione corretta che dia a tutti strumenti pratici per riconoscere, gestire e indirizzare all’esperto una persona in crisi suicidaria può esser un primo passo. C’è bisogno che ognuno condivida una parte di responsabilità nella prevenzione del suicidio.

psicologa a bologna gabriella castagnoli