Una città age-friendly consentirebbe alle persone anziane di partecipare attivamente alla vita della propria comunità, favorendo un invecchiamento attivo Secondo l’OMS per favorire l’ invecchiamento attivo e l’inclusione sociale delle persone anziane bisognerebbe puntare alla trasformazione delle città in città age-friendly: ciò consentirebbe alle persone di ogni età di partecipare attivamente alla vita della propria comunità e a rimanere attive durante l’ invecchiamento.
Invecchiamento attivo: non più spettatori della vita che passa
L’allungamento dell’aspettativa di vita ha determinato un cambiamento nel modo in cui l’anziano viene considerato all’interno della società: non più passivo spettatore della vita che passa ma protagonista attivo.Per definire questa nuova categoria l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2002) ha coniato il termine: invecchiamento attivo, cioè “il processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza” per migliorare la qualità di vita delle persone che invecchiano. Il termine “attivo” non si riferisce esclusivamente all’importanza di mantenersi fisicamente attivi, ma riflette la rilevanza del coinvolgimento in attività produttive, al mantenimento di un impegno sociale, culturale e civico.
In ambito gerontologico vi è la profonda convinzione che l’ambiente in cui l’anziano vive possa fortemente impattare sulla sua vita (Lawton & Nahemow, 1973). Le ricerche in tal senso si sono focalizzate primariamente sullo studio dei contesti istituzionali e domestici. Recentemente l’interesse si è rivolto anche ai macro contesti, come i quartieri, le comunità, le regioni o le località urbane-rurali.
Ambienti e città age-friendly: migliorare la vita delle persone più fragili
Secondo l’OMS per favorire l’ invecchiamento attivo e l’inclusione sociale delle persone anziane bisognerebbe rendere il mondo in cui viviamo più età-solidale e creare città age- friendly. Ciò consentirebbe alle persone di ogni età di partecipare attivamente alla vita della propria comunità, favorendo i rapporti sociali; aiuterebbe le persone a rimanere attive e in salute durante il loro invecchiamento e fornirebbe un sostegno adeguato alle persone che non possono più prendersi cura di sé.
Una città age- friendly, inoltre, non risponde soltanto alle esigenze della popolazione anziana ma di tutte le persone più fragili. Costruire edifici e strade senza barriere architettoniche consente e migliora gli spostamenti e l’indipendenza delle persone disabili, giovani e anziane. Un vicinato sicuro consente ai bambini, alle giovani donne e alle persone anziane di muoversi con sicurezza e di partecipare così alle attività sociali. Per di più, le famiglie delle persone anziane vivono uno stress minore nel momento in cui sanno di poter contare sui servizi sanitari di cui hanno bisogno e sul supporto della propria comunità.
Città age-friendly per favorire l’ invecchiamento attivo
Nel 2006 l’OMS lancia l’iniziativa Città Age-friendly (Age-Friendly Cities), per rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia. L’iniziativa, che ha avuto inizio con un’analisi preliminare di varie città del mondo, ha valutato le strutture e i servizi che rendono una città adatta per la popolazione anziana.
All’interno di tale programma sono stati individuati gli elementi chiave dell’ambiente urbano che supportano l’ invecchiamento attivo e in salute. La ricerca, condotta in 33 città usando un approccio partecipativo, ha confermato l’importanza per le persone anziane dell’accessibilità ai trasporti pubblici, agli spazi esterni e agli edifici, nonché la necessità di un alloggio adeguato, il sostegno della comunità e dei servizi sanitari. Ma ha anche evidenziato la necessità di promuovere quei rapporti che permettono alle persone anziane di essere membri attivi della società, per superare i pregiudizi sull’ invecchiamento e per fornire maggiori opportunità di partecipazione civica e di occupazione.
In seguito alla raccolta e all’analisi dei dati, l’OMS ha costituito un network di città age-friendly con un duplice obiettivo: da un lato, permettere lo scambio di informazioni tra le città, accelerando la loro trasformazione in comunità a misura di anziano, e dall’altro, fornire indicazioni per sviluppare politiche su questo tema anche a livello regionale e nazionale.
L’etimologia inglese è ageism (age-ism: “età” + suffisso greco “ismo”) coniato nel 1969 da un gerontologo statunitense, Robert Neil Butler, per indicare appunto la discrimination against seniors (it. discriminazione verso i più anziani).
L’ageismo è vietato. In Italia, La Costituzione, all’articolo 3 (principio di uguaglianza), vieta qualsiasi forma di “discriminazione basata sulle condizioni personali”, genus nel quale la dottrina costituzionale ha fatto rientrare la specie della “discriminazione basata sull’età”, di cui l’ageismo rappresenta una sottospecie.
La discriminazione dell’anziano nelle cure sanitarie è un problema precedente al 1968, anno di creazione dell’inglesismo. Essa pone a rischio il diritto alla salute dell’anziano, specie di quello disabile.
L‘ageismo nei mass media è un problema più recente, ed è dovuto alla misura in cui la politica editoriale della televisione tende a promuove oltre misura il giovanilismo attraverso il mito dell’eterna giovinezza ed il desiderio di sentirsi giovani, a discapito della figura dell’anziano. Alcune forme di pubblicità esaltando il consumo di prodotti legati all’immagine della giovanilità del corpo, danno una veste caricaturale ai segni della vecchiaia e tendono a ridurre in forme caricaturali lo stesso valore della naturale anzianità.
L’ageismo si manifesta anche fuori dai canali istituzionali-sanitari e mediatici, riverberandosi nei rapporti e nelle relazioni sociali, dove esiste una chiara o più velata discriminazione nei confronti dell’anziano, che può essere motivato da ragioni economiche, sociali o commerciali. Addirittura in Giappone, dove gli anziani costituiscono poco meno del 25 % della popolazione, gli anziani vengono spesso discriminati come madao, ossia “vecchio completamente inutile”.
In Emilia Romagna
Dal ‘Rapporto sociale anziani’ elaborato dalla Regione Emilia Romagna e presentato nel corso del convegno emerge che gli over 65enni residenti in Emilia-Romagna all’1 gennaio 2019 superano il milione e rappresentano quindi il 23,9% della popolazione, percentuale che potrebbe salire al 30% nei prossimi 15 anni; di questi, oltre 360mila – i cosiddetti grandi anziani– hanno più di ottant’anni
A questa platea di cittadini si rivolge il Piano d’azione regionale per la popolazione anziana, che mette insieme programmi e interventi specifici a cui lavorano, oltre alle istituzioni, le organizzazioni sindacali e del terzo settore. Avviato nel 2004, è stato concepito come uno strumento d’approccio intersettoriale, per pianificare le politiche pubbliche e del privato sociale a favore della terza età. Esaminando i dati contenuti nel ‘Rapporto sociale’ sul milione di anziani residenti in regione le provincecon la maggior incidenza sono Ferrara (27,9%), Ravenna (25,3%), Piacenza (24,8%), Bologna (24,4%) e Forli-Cesena (24,3), seguono Parma (23,2%), Rimini (22,8%), Modena (22,7%) e Reggio Emilia (21,5%), la più giovane. Prevale la componente femminile, che rappresenta il 56,6% dei residenti over 65enni e il 62,3% dei grandi anziani; la presenza di persone anziane nelle famiglie è di oltre una su tre (38%) e più di una famiglia su quattro (26%) è composta interamente da anziani.
Ripropongo la Conversazione con Diego De Leo di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
Marzo 2018
Diego de Leo è uno psichiatra di fama internazionale. La sua specialità riguarda lo studio dei comportamenti suicidari, cui ha dedicato l’intera carriera, creando anche la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio (10 settembre di ogni anno), un evento oggi seguito da più di cento nazioni. Professore emerito di psichiatria alla Griffith University di Brisbane, Australia, dove ha lavorato negli ultimi 20 anni dirigendovi l’Australian Institute for Sucide Research and Prevention, De Leo ripropone, a distanza di alcuni anni dalla fortunata prima edizione, una seconda uscita del suo libro “Un’altra vita. Viaggio straordinario nella mente di un suicida” (Alpes Editore, Roma).
Professor De Leo, Lei è abituato a scrivere testi scientifici, come mai questo libro per il grande pubblico?
Perché’ la prevenzione del suicidio riguarda tutti, non solo gli esperti del settore. Volevo quindi cercare di aumentare la conoscenza e la consapevolezza dei lettori sui molti motivi diversi che spingono un individuo a darsi la morte. Per raggiungere questo scopo non intendevo far ricorso al linguaggio tecnico ma usare le parole dei protagonisti delle storie stesse. Il volume raccoglie così una selezione di esperienze umane fortunosamente non conclusesi con la morte del loro interprete principale che nel libro diventa narratore dell’avventura vissuta. Meglio di qualsiasi testo specialistico, queste storie riescono a rappresentare con formidabile immediatezza quell’escalation di avvenimenti ed emozioni che ha portato i soggetti a desiderare di morire.
Dunque è per questo che Lei ha parlato di ‘viaggio straordinario’ nel titolo del libro?
Di suicidio, in genere, si parla poco e male. Quando lo si fa, magari in un articolo di stampa, o si sensazionalizzano le storie o si semplificano all’eccesso, data la difficoltà di fornire un quadro comprensibile del contesto esistenziale della persona suicidatasi. Oppure ci si confronta con il linguaggio scarno del demografo o quello distaccato del medico legale. In questo libro, una serie di persone narra con il linguaggio della vita di tutti i giorni la propria terribile esperienza e la decisione di darsi la morte. Questa poi non è sopraggiunta per ragioni del tutto imprevedibili o fortuite, come può essere miracoloso sopravvivere ad un colpo di arma da fuoco alla testa o alla precipitazione dal terzo piano. È chiaro che queste persone avrebbero potuto morire: il sopravvivere a quella scelta estrema da’ invece loro la forza per ricominciare una vita diversa, un’altra vita, appunto, come indica il titolo del libro. E questo è il messaggio principale del mio volume, e cioè che il desiderio di morire e il tentativo di suicidio rappresentano l’acme di una crisi, passata la quale però si può tornare a vivere, spesso più forti di prima.
E quindi la straordinarietà è data dalla peculiarità delle storie?
Le storie sono estratte dal mio archivio, che ne contiene forse più di duecento. Alcune sono di Australiani, la maggior parte di Italiani. C’è anche la storia di una persona dall’Olanda, paese dove ho fatto il mio dottorato di ricerca e vissuto. Le storie sono state scelte sulla base della loro originalità e ricchezza di contenuti, che spero servano a dimostrare che non tutto è etichettabile come dovuto alla malattia mentale e che il suicidio è un’ipotesi con la quale molti di noi potrebbero essere chiamati a confrontarsi nel corso della vita, qualora le condizioni diventassero troppo difficili per continuare a condurre un’esistenza accettabile. Alla fine di ogni storia c’è un mio breve commento, in modo da costituire una specie di road map per orientare il lettore nella comprensione di quanto descritto dagli autori dei racconti. D’altra parte, per la conoscenza dei comportamenti suicidari, soprattutto quelli fatali – i suicidi – psichiatri e psicologi si avvalgono generalmente di una letteratura scientifica basata quasi esclusivamente sull’uso dell’‘autopsia psicologica’, cioè di quella tecnica che permette di ricostruire attraverso le testimonianze di chi conosceva bene la persona suicidatasi le caratteristiche personologiche, gli eventuali elementi clinici e le circostanze di vita del suicida. È chiaro che questo metodo è basato sulle opinioni di questi ‘sopravvissuti’ (famigliari, congiunti, amici), visto che i morti non parlano, e che il margine di soggettività è quindi molto elevato. In caso di soggetti conducenti vite solitarie, la disponibilità di conoscenti può risultare del tutto assente, per cui l’autopsia psicologica non risulta praticamente realizzabile. Per quanto invece riguarda i comportamenti non fatali, cioè i tentativi di suicidio, esiste il problema di determinare la reale intenzione suicidaria dei soggetti che li hanno effettuati. Generalmente in un affollato Pronto Soccorso ospedaliero non esistono le condizioni favorevoli per un’indagine difficile come quella di capire se un soggetto volesse davvero morire oppure richiamare attenzione su di sé, dormire un po’ di più, scaricare tensione e rabbia, oppure verificare quanto gli altri tenessero realmente a lui/lei. Ecco dunque che disporre di racconti di persone scampate per un soffio a morte certa rappresenta un’opportunità di grande interesse umano e scientifico. Inoltre credo ci sia la possibilità di capire, attraverso le storie, la reale complessità dei fattori che possono determinare una scelta suicidaria, e quindi comprendere come l’etichetta ‘disturbi mentali’ non possa bastare a spiegare il tutto. Tutti noi, prima o dopo nel corso della vita, possiamo essere indotti da circostanze particolarmente avverse a considerare anche l’opzione suicidaria…
Il libro è avvincente e si legge come un thriller. Uno resta sbigottito dalla singolarità delle storie…
Ne sono lieto. D’altra parte il suicidio è la peggiore delle tragedie umane, quindi un tema molto difficile da ‘reggere’; la gente preferirebbe ignorarne l’esistenza o – appunto – saperlo confinato a pochi malati mentali gravi. In realtà la vita può riservarci sorprese di ogni genere cui non sempre siamo in grado di reagire adeguatamente. Le sofferenze che ne derivano possono portare a quel dolore psichico, profondo, che non ci permette di vedere vie d’uscita e che giorno dopo giorno diventa sempre meno sopportabile. Rispetto alla prima edizione, c’è la storia di un ragazzo olandese che si butta sotto il treno ma ne sopravvive con entrambi gli arti inferiori amputati appena sotto il bacino. Poi ci sono tre nuove storie di mamme che hanno dovuto resistere alla morte per suicidio di un loro figlio e quella di una moglie che ha perso il marito. In tutti questi casi si tratta di persone di grande spessore umano, che hanno trovato la forza di sopportare il loro indicibile lutto con attività di volontariato, scrivendo libri sulla loro esperienza o realizzando piece teatrali, come nel caso di Evelina Nazzari, figlia d’arte del grande Amedeo. Le storie di sopravvissuti al suicidio costituiscono la terza parte del volume, anch’essa un messaggio di speranza, dal momento che illustra esempi di come si possa riedificare la propria vita dopo tsunami esistenziali come quelli prodotti dalla morte innaturale di un proprio caro. La prima parte del volume – anch’essa aggiornata – è costituita dalla mia presentazione del tema del suicidio e dalle ragioni che mi hanno indotto a dedicarvi la mia vita.
Un’anticipazione, al riguardo?
Ero ancora uno specializzando di Psichiatria e mi interessavo di ormoni dello stress e di psicosomatica. Il suicidio di un giovane collega mi turbò al punto di cambiarmi la vita (un turning point). Sconvolto dalla consapevolezza di non aver saputo comprendere in alcun modo la sofferenza che doveva albergare nel mio amico, decisi di dedicarmi allo studio delle condotte suicidarie e lo feci con interesse e passione crescenti, data la grande complessità dell’argomento ma anche il suo indubbio fascino (l’unico vero problema filosofico, come ebbe a dire Albert Camus nel suo Mito di Sisifo). Dopo qualche anno riuscii a fondare l’associazione italiana per lo studio e la prevenzione del suicidio, a organizzare servizi clinici e unità di ricerca, la pubblicazione di una rivista, ecc. fino a spenderci l’intera carriera accademica. Oggi dirigo un centro internazionale di ricerca in Slovenia (nazione con un tasso di suicidio quasi triplo di quello italiano) ma soprattutto cerco di aiutare le persone che hanno sofferto la perdita di una persona cara per suicidio o altra causa di morte traumatica, come un incidente stradale o sul lavoro o una catastrofe naturale. De Leo Fund è una onlus che opera da Padova su tutto il territorio nazionale; si avvale dell’aiuto di medici, psicologi e volontari che offrono i propri servizi gratuitamente anche al telefono o via Internet (www.deleofund.org).
Purtroppo le persone spesso fanno fatica a chiedere aiuto, è d’accordo?
Sì, ha ragione. Soprattutto i maschi trovano difficile dimostrare le proprie debolezze e inquietudini.
Eppure è il passo, l’unico, non solo verso l’elaborazione del lutto ma verso la propria salvezza. Perché solo condividendo il dolore si riesce a trasformarlo. E nella trasformazione del dolore si scopre la bellezza della vita, si capisce perché sia fondamentale prendersene cura. Comprensione alla quale nel mio libro arrivano tutti i protagonisti che ruotano attorno a quel finale senza tragico esito, ovvero tutti quelli che, decisi a compiere il passo senza ritorno, si trovano invece miracolosamente graziati da questa tragica scelta.
Come se ne esce, quindi?
Come dicevo all’inizio, la prevenzione del suicidio è un problema che deve riguardare tutti. Parlare di suicidio, nel modo giusto, aumenta la consapevolezza del problema e combatte lo stigma che ancora lo circonda. Una delle conseguenze più nefaste della stigmatizzazione è la sua capacità di interferire con la richiesta d’aiuto. La società non può rimanere indifferente a questi aspetti. Chi è lasciato solo a gestire le conseguenze delle proprie tragedie si ammala o si da’ la morte.Dobbiamo aiutarci tutti. È molto difficile dare un senso alla propria esistenza soprattutto per chi non ha fede in alcuna religione; trovo che dare una mano a chi soffre aiuti molto a rendere la vita degna di essere vissuta.
Abbiamo parlato delle diverse fasi del GRIEF , il lutto per la perdita di una persona cara.
Eccoci ora alle ultime fasi:
DEPRESSIONE
Molti di noi sono state diverse settimane in questa pandemia. Il termine “stanchezza da pandemia” è stato coniato per riflettere il senso di molti di noi che provano attualmente. Mentre aspettiamo il semaforo verde per tornare al mondo, potremmo sentirci giù. Nel ciclo del dolore, quando arriviamo a patti con la mancanza di controllo creato dalla perdita e alle prese con lo “stadio della contrattazione”, il senso di impotenza della depressione potrebbe emergere nel tuo panorama emotivo. Questo è normale, naturale ed è una grande parte della perdita.
Quando il mondo si riaprirà,come ora sta avvenendo, potrebbe apparire e sentirsi molto diverso da quello che conoscevamo solo pochi mesi fa. Questo è un luogo in cui tristezza e perdita potrebbero essere veramente sentite. Dato che puoi nominare questi sentimenti mentre li provi, sarebbe buona cosa prendersi il tempo necessario per farlo. La cosa strana è che se ti senti fuori mentre torni nel tuo mondo aperto, questo è in realtà un segno di salute mentale. Il mondo ti sembrerà diverso e potresti rispondere sentendo nostalgia del nostro recente passato. Per favore, permettiti di abbracciare queste emozioni.
Se hai perso una persona cara legata a COVID-19, la tristezza, la depressione e i sentimenti di perdita potrebbero richiedere del tempo. Il dolore collettivo che avvertiamo, unito al dolore personale, è davvero molto profondo.
Incoraggia i tuoi cari a darti spazio, amore, accettazione e per favore fai lo stesso per chiunque tu sappia che sta soffrendo per una perdita legata a questa pandemia.
E alla fine di tutta questa esperienza del lutto l’ACCETTAZIONE
Queste fasi della perdita non sono lineari, né esatte, ma servono come quadro per aiutare a dare un senso al tuo viaggio.
L’accettazione accade quando possiamo riconoscere la perdita come parte della vita e sentirci meno consumati dall’esperienza. Il dolore è un insegnante eccellente e alla fine ci offre uno spazio per crescere, acquisire saggezza e aumentare la nostra intelligenza emotiva. L’accettazione non significa che abbiamo rinunciato ad amare la persona amata che è passata, significa che abbiamo trovato un posto dove vivere in noi, pur continuando con le nostre stesse vite. Queste righe non hanno l’ambizione di essere terapeutiche ma di rendersi utili a fornire uno spazio utile per guarire, riflettere e coinvolgere la tua creatività per il tuo percorso di guarigione.
La creatività può servire come un’eccellente strada per uscire da un luogo buio. Potresti pensare di non essere abbastanza creativo da impegnarti nell’espressione di sé come forma di guarigione, ma serve un po’ di coraggio per correre un piccolo rischio di provare qualcosa, anche se è solo un semplice articolo come questo. L’arte creata nelle sessioni di terapia espressiva e di arte terapia è spesso grezza, disordinata, brutta e potente. La forma onesta di espressione di sé è spesso sorprendente in quanto possiamo comunicare cose che non possono essere espresse verbalmente. Le informazioni visive possono servire da veicolo per l’autoespressione di emozioni che spesso non hanno parole. Puoi di usare la tua creatività come guida per l’espressione personale.
In questo periodo in cui non potevamo sederci l’uno di fronte all’altra, abbiamo utilizzato le sedute on line come veicolo unico per chiamate simulate di condoglianze, ma non è certo come vedersi di persona, incontrarsi, abbracciarsi o stringersi la mano. Con il supporto della comunità. Se conosci qualcuno che è in lutto a causa di una perdita, mettiti in contatto con lui, dagli un po ‘d’amore e fai piani per passare del tempo insieme nel prossimo futuro. Lo supereremo. Gli esseri umani sono resistenti.
L’epidemia di Covid-19 che ha colpito così duramente il nostro paese ha fatto in modo che le nostre nostre abitudini, che ci sembravano così scontate, siano state improvvisamente stravolte e profondamente modificate.
Purtroppo per contenere l’espansione incontrollata dell’epidemia, il governo è stato costretto a prendere misure drastiche che hanno costretto tutti noi a un lungo periodo di quarantena. Oltre al disagio che ci hanno recato queste settimane di isolamento sociale forzato, sembra con tutta probabilità che la spiacevole condizione che stiamo vivendo possa effettivamente impattare in maniera sostanziale sul nostro benessere psicofisico. In letteratura infatti esistono diverse ricerche che hanno raccolto numerose prove sugli effetti negativi che un prolungato periodo di segregazione può avere sulla salute psicologica.
La parola quarantena (forma veneta per quarantina) descrive il periodo di isolamento obbligato utilizzato per limitare il diffondersi di un’epidemia, che fu impiegato per la prima volta dalla repubblica di Venezia in relazione agli equipaggi delle navi in arrivo dai possedimenti in Dalmazia. Questo decreto speciale fu emanato per contenere l’epidemia di peste nera che imperversava in Europa e in Asia nel quattordicesimo secolo. Tale provvedimento imponeva infatti ai nuovi arrivati nella città lagunare, di passare un periodo di isolamento in un luogo ad accesso limitato per la durata appunto di quaranta gironi.
Se per tutti noi questa è un’esperienza nuova e dolorosa, queste misure drastiche di contenimento sono già state attuate molte volte in diversi periodi storici. Anche in tempi recenti differenti paesi hanno attuato queste disposizioni restrittive, come ad esempio diverse zone della Cina e il Canada per l’epidemia di SARS del 2003, alcuni villaggi africani per l’epidemia di Ebola del 2014 e prima di noi la provincia cinese di Hubei per l’attuale epidemia di Covid-19.
La quarantena, come stiamo purtroppo sperimentando, è un’esperienza spiacevole che comporta la perdita di libertà individuale, la separazione dai nostri affetti più cari e uno stato di incertezza sulla propria salute e sul futuro.
Durante il periodo di quarantena ci sono numerosi fattori di stress che secondo le ricerche contribuiscono a farci vivere il periodo di distanziamento sociale in maniera ancor più difficile. A tal proposito si è constatato che quanto più la durata della quarantena è lunga, tanto più è facile che si sviluppino sentimenti di rabbia, sintomi di disturbo da stress post traumatico e comportamenti fobici di evitamento. In special modo sembra essere presente la paura di poter sviluppare i sintomi della malattia e infettare gli altri (Hawryluck L., et al. 2004) (Marjanovic Z., et al. 2007).
La perdita del proprio lavoro, della propria routine quotidiana e l’annullamento del contatto sociale sono poi indicati spesso come cause di sentimenti negativi, come noia, demoralizzazione, senso di solitudine e di isolamento dal resto del mondo. In studi precedentemente svolti emerge inoltre come la paura di non avere a disposizione i rifornimenti per la sussistenza, come cibo o farmaci, sia stata fonte di notevole stress, che ha causato nelle persone ansia, rabbia e frustrazione, emozioni che in alcuni casi hanno continuato a essere presenti anche fino a sei mesi dopo la fine del periodo di quarantena (Blendon R.J., et al. 2004) (Jeong H., Yim H.W., Song Y.J., et al. 2017).
I dati raccolti suggeriscono poi che è probabile che durante il periodo di distanziamento sociale si possano sviluppare disturbi di tipo fobico od ossessivo che permangono a lungo dopo la fine dell’epidemia. Una ricerca fatta a questo proposito su individui che erano stati in quarantena a causa di un possibile contatto con il virus della SARS ha rilevato che dopo la fine dell’emergenza, il 54% delle persone che erano state messe in isolamento evitavano chi tossiva o starnutiva, il 26% evitava luoghi chiusi e affollati e il 21% evitava tutti gli spazi pubblici (Reynolds D.L., et al. 2008). Uno studio a lungo termine correlato, effettuato dopo il periodo di quarantena, ha evidenziato la presenza di cambiamenti comportamentali diretti a ridurre l’ipotetico rischio di contagio, come il lavaggio compulsivo delle mani e l’evitamento di luoghi affollati (Cava M.A., et al. 2005). Inoltre un’analisi condotta su personale ospedaliero che era entrato in contatto con i malati di SARS, ha scoperto che dopo la fine del periodo di quarantena (nove giorni) venivano riportati sintomi da stress acuto, come forte ansia, irritabilità, insonnia, scarsa concentrazione e calo della produttività lavorativa (Bai Y., et al. 2004)
Come già stiamo vedendo, uno dei problemi più grandi della quarantena è quello dello sviluppo di una grossa crisi finanziaria. Interrompere la propria attività professionale a tempo indeterminato porta a effetti potenzialmente negativi sulla salute psicologica che si possono protrarre anche per molto tempo dopo la fine dell’emergenza. Come si è già osservato durante le epidemie di virus Ebola, di influenza equina o di SARS, l’interruzione dell’attività lavorativa ha causato oltre a gravi perdite finanziarie per i lavoratori, anche un forte rischio di sviluppare nella fase successiva alla fine dell’epidemia disturbi ansiosi, rabbia e depressione (Mihashi M., et al. 2009; Pellecchia U., et al. 2015; Taylor M.R., et al. 2008).
Risulta evidente che le misure restrittive prese dal governo siano state necessarie a evitare il propagarsi dell’epidemia. Tuttavia non bisogna sottovalutare gli eventuali costi in termini di salute psicologica che tale brutto periodo porterà a tutti gli italiani. La letteratura scientifica, come abbiamo visto, fornisce numerosi dati al riguardo. Dopo un evento traumatico di tale portata storica è inevitabile che ci siano anche ripercussioni sul benessere psicologico individuale di ogni cittadino. La struttura dell’assistenza sociale e psicologica senza dubbio andrà ripensata anche per far fronte al sicuro aumento di patologie stress correlate. Chi prima dell’epidemia aveva già un disturbo psichiatrico probabilmente avrà bisogno di un ulteriore aiuto. Con ogni probabilità poi, a questa popolazione si aggiungerà un gruppo numeroso di nuovi malati che avranno bisogno di assistenza e adeguato sostegno da parte della sanità e delle istituzioni.
Se si vuole ridurre la portata degli effetti negativi presenti e futuri dell’attuale quarantena, gli elementi suggeriscono che è necessario dare informazioni corrette e non fuorvianti ai cittadini, spiegando in maniera esaustiva la natura dei rischi e far sì ci siano chiare linee di comunicazione con la sanità pubblica, facendo in modo che la popolazione abbia un’adeguata comprensione della malattia. Se le persone sentono le istituzioni vicine, se percepiscono chiarezza nella comunicazione, può effettivamente nascere quel sano sentimento di altruismo che può unire il paese nella battaglia contro questa nuova epidemia. Non si può chiedere alle persone di mettersi in quarantena per il bene della comunità, se lo Stato che la rappresenta non è efficace nel tracciare linee chiare e trasmettere fiducia nel futuro (S. K. Brooks., et al. 2020).
La chiarezza e la trasparenza di informazione da parte delle autorità sulla durata della quarantena e sui propositi futuri, sono la chiave per riavvicinare i cittadini alle istituzioni politiche e per rafforzare il concetto che questo difficile periodo è necessario alla salvaguardia delle vite di ognuno di noi. Limitare la libertà dell’intera popolazione è stata sicuramente una delle scelte più complicate e gravose che siano state prese nella storia della Repubblica. Conseguentemente abbiamo visto anche che gli effetti psicologici della quarantena possono essere variegati, diffusi e avere una lunga durata. Quanto più i cittadini si sentiranno soli e abbandonati durante questo periodo, tanto più le ripercussioni sul benessere psicologico futuro saranno gravi. In questo difficile momento ci sono una moltitudine di persone che oltre a essere preoccupate per la loro vita, sono preoccupate per l’avvenire incerto che le attende. Se lasciate sole, senza punti di riferimento, dove adesso c’è noia alla lunga ci sarà angoscia, dove c’è frustrazione alla lunga ci sarà disperazione. Quanto peggiore sarà la percezione del vissuto di questa brutta esperienza, tanto peggiori saranno gli effetti prossimi sulla salute mentale. Mai come adesso l’abbraccio dello stato può farci sentire al sicuro. Mai come adesso le parole e le scelte delle istituzioni possono aiutarci ad avere fiducia in quello che dovranno essere le nostre nuove vite dopo la fine di tutto questo.
Abbiamo indicato alcuni possibili fattori che possono essere concause della Depressione Maggiore. Fattori psicologici, ambientali, biologici, possono tutti contribuire al suo sviluppo. Qualunque sia la causa specifica della depressione, ricerche scientifiche hanno appurato che la depressione maggiore è un disturbo biologico del cervello.
Noradrenalina, serotonina e dopamina sono tre neurotrasmettitori (connettori chimici che trasmettono segnali tra le cellule cerebrali) che si ritiene siano coinvolti nella depressione maggiore. Gli scienziati ritengono che qualora si manifesti uno squilibrio chimico in questi neurotrasmettitori ne risulterebbe uno stato di depressione. I farmaci antidepressivi agiscono incrementando la disponibilità di neurotrasmettitori o variando la sensibilità dei recettori di questi connettori chimici.
I ricercatori hanno anche appurato una predisposizione genetica alla Depressione Maggiore. Vi è una maggior possibilità di soffrire di depressione quando si sono verificati dei casi nella famiglia. Non tutti coloro che presentano una predisposizione genetica alla depressione ne sono affetti! La configurazione biologica di alcune persone le rende maggiormente vulnerabili. Anche alcune malattie come le patologie cardiache e il cancro e alcuni medicamenti possono aumentare il rischio di ammalarsi di depressione.
Fatti di vita, come morti, incidenti , una perdita ma abbiamo visto in precedenza anche eventi apparentemente non traumatici ma vissuti come tali, possono innescare episodi di depressione. E’ importante sottolineare che molti episodi depressivi si manifestano in modo autonomo senza essere innescati da crisi, malattie o altri fattori di rischio.
L’inizio del primo episodio di depressione maggiore può non essere evidente se è graduale e leggero.
Indico qui alcuni dei possibili sintomi della depressione maggiore che sono caratterizzati da importanti cambiamenti nelle abitudini della persona:
Un persistente umore triste o irritabile
Importanti variazioni nelle abitudini del dormire, appetito e del movimento
Difficoltà nel pensare, della concentrazione, e della memoria
Lentezza dei movimenti o agitazione
Mancanza di interesse o piacere nelle attività che invece prima interessavano
Sensazione di colpevolezza, di inutilità, mancanza di speranze e senso di vuoto
Pensieri ricorrenti di morte o di suicidio
Sintomi fisici persistenti che non rispondono alle cure come mal di testa, problemi di digestione, dolori persistenti
Quando si manifestano contemporaneamente più di uno di questi sintomi, durano più di due settimanee interferiscono con la normale attività è consigliabile ricorrere alle cure dello psicologo.
La Depressione Maggiore è un disturbo importante che colpisce ogni anno circa il 5 % della popolazione adulta. Diversamente da un normale sensazione di tristezza, di perdita o di un transitorio stato di cattivo umore, la Depressione Maggiore presenta caratteristiche di persistenza e può interferire pesantemente sul modo di pensare di un individuo, sul comportamento, l’umore, l’attività ed il suo benessere fisico.
Fra tutte le patologie la depressione maggiore è la più frequente causa di invalidità in molti Paesi sviluppati.
Le donne sono colpite da Depressione Maggiore in numero doppio rispetto agli uomini. La depressione maggiore può colpire ad ogni età anche nella fanciullezza, nella gioventù e nell’età adulta. Tutti i gruppi etnici, razziali o sociali possono essere affetti dalla depressione.
Circa tre quarti di coloro che sono stati colpiti da un primo episodio di depressione ne saranno colpiti da un altro durante il resto della vita. Alcune persone sono colpite da più episodi durante l’anno. Se non debitamente curati gli episodi di depressione possono durare dai sei mesi a un anno. Se non curata la depressione può portare a gravi conseguenze.
La Depressione Maggiore è solo una delle varie forme di disturbo depressivo.
Altre forme di depressione sono la distimia (depressione cronica con sintomi meno intensi), e la depressione bipolare (la fase depressiva del disturbo bipolare).