Paternità

Un bravo padre …” dovrebbe proteggere l’unione speciale tra madre e bambino, alternarsi con lei  nelle cure primarie, tollerando poi di restarne estromesso, rintuzzando in se stesso i sentimenti di invidia e gelosia. Progressivamente, dovrebbe introdurre nella coppia fusionale di mamma e figlio il seme delicato del distacco e della separazione durante le varie tappe della crescita: l’addormentamento nel lettino, lo svezzamento, l’andata a scuola, l’incontro con i compagni e lo sport…. Nel contempo , dovrebbe attrarre la compagna, sedurla alla sessualità, reclamare anche per sé uno spazio di attenzione e affetti….”

“Il padre materno” S. Argentieri

Psicologia dell’abitare:Harry Mallgrave

 

Harry Francis Mallgrave

L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze

Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015

Le informazioni che possiamo acquisire sul molteplice aspetto della realta passano attraverso la percezione sensoriale che il nostro corpo ha dell’esterno. La relazione fra il corpo e l’architettura e proprio il tema centrale intorno al quale si snoda il libro di Harry Francis Mallgrave che, in quanto pioniere degli studi sull’applicazione delle neuroscienze alla teoria architettonica, svela attraverso l’empatia degli spazi la potenza e la forza del corpo nel costruire le forme della realta.

La dimensione spaziale, definita da elementi che attraverso la loro composizione formale e materica trasmettono infinite informazioni all’occhio, rappresenta in questo libro l’alter ego del pensiero, la possibile realta che prende forma attraverso le rielaborazioni cerebrali: <<[…] l’organismo e l’ambiente sono complementari e reciproci nella loro relazione e la percezione e un’attiva estrazione di invarianti o configurazioni che comporta sempre la percezione del se. Si tratta quindi di una psicologia del realismo incarnato in cui l’ambiente culturale non puo essere separato da quello naturale>>.

Mallgrave concepisce l’architettura come una pratica che prende corpo attraverso l’esperienza emotiva, afferma, infatti, nell’introduzione: <<Il corpo e le sue funzioni non possono piU essere distinti da una mente priva di materia e spazio, che si pensava agisse razionalmente sui nostri eventi corporei o sensoriali […] il nostro corpo e le sue basi emotive, tanto a livello cosciente quanto a quello preconscio, modellano il modo in cui pensiamo o ci impegniamo attivamente nel mondo, e nelle nostre culture urbane tale modellazione avviene generalmente in un ambiente costruito da un architetto>>.

La struttura del testo permette di leggere trasversalmente il tema dell’architettura attraverso la sua declinazione nei meandri della filosofia, della psicologia, della biologia, delle neuroscienze e dell’antropologia. Mallgrave fa convergere queste tematiche nell’idea dell’interpretazione per la conoscenza degli spazi, della riflessione dell’io-soggetto nel mondo esterno attraverso lo ‘schermo’ della percezione: <<Il fatto che le tecniche di visualizzazione cerebrale possano catturare sullo schermo i ‘brividi lungo la schiena’ che potrebbero verificarsi durante l’ascolto di un improvviso di Schubert o l’ingresso in una cattedrale medievale indica che vi sono molte possibilita in tal senso.

Perlomeno queste intuizioni forniscono un’idea del pensiero creativo e di come meglio possiamo tenere conto delle nostre abilita in continua evoluzione nell’ambiente che ci circonda>>.

 

 

Hikikomori: di cosa si tratta?

 

Hanno tra i 14 e i 25 anni e non studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della Rete e dei social network con profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato. Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi.“E’ un male che affligge tutte le economie sviluppate – spiega Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia, la prima associazione nazionale di informazione e supporto sul tema – Le aspettative di realizzazione sociale sono una spada di Damocle per tutte le nuove generazioni degli anni Duemila: c’è chi riesce a sopportare la pressione della competizione scolastica e lavorativa e chi, invece, molla tutto e decide di auto-escludersi”.Le ultime stime parlano di 100mila casi italiani di hikikomori, un esercito di reclusi che chiede aiuto. Un numero che è destinato ad aumentare se non si riuscirà a dare al fenomeno una precisa collocazione clinica e sociale.

Un fenomeno dai contorni ancora poco chiari

Hikikomori Italia

Associazioni come Hikikomori Italia ormai da anni stanno facendo il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno ad un disagio che viene troppo spesso confuso con l’inettitudine e la mancanza di iniziativa delle nuove generazioni. Un equivoco che ha trovato terreno fertile nel dibattito politico, legislatura dopo legislatura, fornendo stereotipi come “bamboccioni”, definizione coniata nel 2007 dall’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, o “giovani italiani choosy” (schizzinosi) dell’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, fino ad arrivare al mare magnum dell’acronimo Neet, i ragazzi “senza studio né lavoro”, che secondo un sondaggio dell’Università Cattolica del 2017 sarebbero 2 milioni in tutta la Penisola.Anche dal punto di vista medico l’hikikomori soffre di una classificazione nebulosa. Nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), la “Bibbia” della psichiatria, è ancora iscritto come sindrome culturale giapponese: un’imprecisione che tende a sottostimare la minaccia del disagio nel resto del mondo e che crea pericolose conseguenze.“Molto spesso viene confuso con sindromi depressive e nei peggiori casi al ragazzo viene affibbiata l’etichetta della dipendenza da internet” – spiega Crepaldi – Una diagnosi di questo genere normalmente porta all’allontanamento forzato da qualsiasi dispositivo elettronico, eliminando, di fatto, l’unica fonte di comunicazione con il mondo esterno per il malato: una condanna per un ragazzo hikikomori”.

Come si diventa hikikomori?

L’ambiente scolastico è un luogo vissuto con particolare sofferenza dagli hikikomori, non a caso la maggior parte di loro propende per l’isolamento forzato proprio durante gli anni delle medie e delle superiori. E’ in questo periodo che di solito si verifica il cosiddetto “fattore precipitante”, ovvero l’evento chiave che dà il via al graduale allontanamento da amici e familiari. Può essere un episodio di bullismo o un brutto voto a scuola, ad esempio.“Un avvenimento innocuo agli occhi delle altre persone, ma che contestualizzato all’interno di un quadro psicologico fragile e vulnerabile, assume un’importanza estremamente rilevante – spiega Crepaldi – E’ la prima fase dell’hikikomori: il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola utilizzando scuse di qualsiasi genere, abbandona tutte le attività sportive, inverte il ritmo sonno-veglia e si dedica a monotoni appuntamenti solitari come il consumo sregolato di serie TV e videogames”.

E’ fondamentale intervenire proprio in questo primo stadio del disturbo, quando si manifestano i primi campanelli di allarme. In questa fase i genitori e gli insegnanti rivestono un ruolo cruciale in chiave prevenzione: indagare a fondo sulle motivazioni intime del disagio e, nel caso, cercare in breve tempo il supporto di un professionista esterno può evitare il passaggio ad una fase più critica, che richiederebbe un intervento lungo potenzialmente anche anni.

Italia e Giappone: due facce della stessa medaglia

È innegabile che la cultura giapponese sia storicamente caratterizzata da una serie di fattori che aumentano la portata del fenomeno, tanto da poter già parlare di due generazioni di hikikomori, la prima sviluppatasi negli anni Ottanta. Il sistema sociale e scolastico ultra competitivo e il ruolo della figura paterna spesso assente a causa di orari di lavoro estenuanti sono alla base di aspettative opprimenti, spesso non realizzate. Seppur con le dovute proporzioni anche in Italia le pressioni sociali sono molto forti. Determinanti fin dai primi casi di hikikomori diagnosticati nel 2007, sono il calo delle nascite con il conseguente aumento dei figli unici, di norma sottoposti a pressioni maggiori, la crisi economica che rende più lontano l’ingresso (reale) nel mondo del lavoro e l’esplosione della cultura dell’immagine, esasperata dalla diffusione capillare dei social network.

In Italia la sindrome non colpisce solo i maschi, come avviene in Giappone, ma riguarda anche un discreto numero di hikikomori-femmine, con un rapporto di 70 a 30. “Per una questione culturale le famiglie considerano, tuttavia, la reclusione della figlia come un problema minore – spiega Crepaldi – Probabilmente perché la vedono come una futura casalinga o sperano che un domani si sposi ed esca di casa”.All’interno del contesto italiano, ci sono poi differenze addirittura tra una regione e l’altra: gli hikikomori del Nord Italia hanno, infatti, delle caratteristiche diverse rispetto a quelli del Sud Italia. Proprio per questo il sito di Hikikomori Italia mette a disposizione chat regionali, in cui i ragazzi possono discutere dei problemi con i loro conterranei affetti dalla stessa sindrome.C’è un’unica regola all’interno della chat: chi ci entra non è costretto ad interagire, ma è gradita una breve presentazione. Chi non la rispetta, viene “bannato”. Per chi vuole raccontare la propria storia c’è anche il Forum, aperto sia ai ragazzi che ai genitori: un mondo parallelo, silenzioso, impalpabile. Una bacheca di richieste di aiuto e di sofferenza, ma anche di storie a lieto fine. Come quella di Luca, 25 anni:

“Il giorno e la notte erano identici, dormivo quando avevo voglia, mangiavo quando avevo voglia. Ho perso tutti gli amici e lo schermo era uno “stargate” per un altro universo. Il tempo si dilatava quando cliccavo sulla tastiera e non volevo mai smettere. Quando dovevo lavarmi fremevo sotto la doccia per rimettermi a giocare. 
Ho passato così più di due anni giocando a Wow [World of Warcraft, un videogioco di strategia ndr] in totale isolamento. Non riuscivo neanche più a camminare. Tutto questo è successo senza che mia madre si accorgesse di nulla: lavorava dalle 8 alle 17 e io facevo finta di andare a scuola. Non avevo più voglia di tornarci. Troppa pressione.
L’isolamento è una battaglia che alla fine diventa una cura. Cresceva dentro di me come un’onda, lentamente, fino al momento in cui tutto iniziava a darmi fastidio, non sopportavo cosa facevo, non sopportavo chi ero.
Oggi ne sono fuori, vivo all’estero e ho una fidanzata bellissima. Sono o sono stato un hikikomori? Non lo so, ma quello che so è che la forza per combattere quel demone sta e risiede solo dentro di voi, nessuno vi può aiutare, nella taverna di qualche montagna virtuale dove voi stessi vi siete persi, con la sensazione di pace che vi avvolge la mente. L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer”.

Crisi della fertilità, hikikomori e karoshi: tre piaghe sociali del Giappone. Guarda il video

del SUICIDIO… 3 – quali cause?

Nei due articoli precedenti abbiamo detto che l’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle soluzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente pochi per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile (Pompili, 2008b). Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita.

Secondo Shneidman (1996) ci sono degli ELEMENTI  che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:

  1. Lo scopo del suicidio è trovare una soluzione; non si tratta mai di un atto privo di fine. Si riferisce invece al voler uscire da una crisi, da una situazione insopportabile che genera il dolore psicologico;
  2. Il fine del suicidio è quello della cessazione della coscienza. Si può meglio comprendere il suicidio se lo si considera come un atto che abolisce la coscienza dell’individuo dove alberga il dolore mentale insopportabile e perciò si propone come la migliore soluzione per l’individuo. È questa la miscela esplosiva per il suicidio, ossia il momento in cui l’individuo, abbandonate altre possibilità di soluzione, inizia l’organizzazione dell’atto letale;
  3. Lo stimolo al suicidio è il dolore psicologico. Se la cessazione è ciò che l’individuo cerca di ottenere, il dolore psicologico è ciò da cui l’individuo cerca di fuggire. Nei suicidi si ritrova, ad un’attenta analisi, la combinazione tra volere la cessazione della coscienza e l’allontanamento dal dolore psicologico insopportabile. Il suicidio non esita mai dai momenti felici. I pazienti descrivono tale dolore in molti modi come:

    1. “Sono morto dentro,“Sentivo un dolore fortissimo dentro”; “Sentivo onde di dolore propagarsi nel mio corpo”. Il suicidio è una risposta ad appannaggio esclusivo dell’uomo nei confronti di un dolore psicologico estremo. Se si riduce il livello di sofferenza il suicidio non si verifica;
    2. Lo stressor comune nei suicidi si riferisce ai bisogni psicologici insoddisfatti. Paradossalmente, il soggetto suicida tenta la carta del suicidio per soddisfare bisogni psicologici vitali rimasti frustrati. Questo porta nuovamamente a concludere che possono esserci molte morti nelle quali manca la motivazione del soggetto (incidenti, morti naturali), ma ogni suicidio riflette alcuni bisogni psicologici non soddisfatti;
    3. Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano “Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo);
    4. Lo stato cognitivo tipico del soggetto suicida è l’ambivalenza. I soggetti suicidi sono caratterizzati dall’ambivalenza tra la vita e la morte fino al compimento dell’atto letale. Sebbene si apprestino alla morte desiderano ardentemente essere salvati;
    5. I soggetti suicidi presentano uno stato di costrizione mentale. Il suicidio può essere compreso come uno stato di costrizione psicologica transitoria che coinvolge le emozioni e l’intelletto. I soggetti suicidi infatti affermano “Non c’era altro che potessi fare”, “L’unica via di uscita era la morte”, “L’unica cosa che potessi fare era uccidermi”. È questa la visione tunnel di cui spesso si parla, nella quale vi è un restringimento del campo delle opzioni disponibili; e nel quale la mente è sintonizzata su due sole possibilità: una soluzione lieta (quasi magica) oppure la cessazione, il suicidio. In questi casi vige la legge del tutto o del nulla.
    6. L’azione tipica dei suicidi è la fuga, un esodo da qualcosa di angosciante;
    7. L’atto interpersonale tipico dei soggetti suicidi è la comunicazione dell’intenzione. Dalle prime autopsie psicologiche è emerso che nelle morti equivoche, poi classificate come suicidi, veniva comunicato l’intento suicidario in modo più o meno esplicito. Questi soggetti, piuttosto che comunicare ostilità, rabbia o depressione, comunicavano verbalmente o con il loro comportamento il fatto che si sarebbero uccisi;
    8. I pattern del suicidio sono assimilabili agli schemi adattativi della vita dell’individuo suicida. In altre parole, osservando come una certa persona si è comportata in altri momenti difficili della propria vita si può prevedere come quella persona si approcci al suicidio. Probabilmente durante altre difficoltà quella persona ha sperimentato la tendenza al pensiero dicotomico e alla fuga dal dolore. Sebbene il suicidio, per definizione, sia un evento mai sperimentato in precedenza, possiamo indagare la mente dei soggetti nei confronti del gesto letale analizzando lutti, separazioni, perdite di vario genere.

    Il suicidio ha portato via milioni di vite nel corso dei secoli e la sua comprensione rimane ancora parziale. Abbiamo però oggi un bagaglio di conoscenze che ci permettono di approcciarci ad una prevenzione concreta. La corretta gestione del soggetto in crisi da parte dei curanti pone le basi per un’effettiva prevenzione.

    Sebbene esista una chiara associazione tra disturbo psichatrico e suicidio è vero anche il contrario. Molti soggetti non sono depressi in senso stretto; sono tristi, angosciati per un problema che ai loro occhi non ha soluzione. Etichettarli precocemente come affetti da depressione li destina ad un percorso nel quale il rischio di suicidio  è solo marginalmente affrontato. Il suicidio non dovrebbe mai essere considerato un sintomo di un certo disturbo psichiatrico, piuttosto una dimensione frequentemente associata alle problematiche psichiatriche.

    Spesso l’enfasi non è tanto sulle emozioni negative degli individui suicidari e sulla possibilitá di ascoltare il loro dolore e dunque aiutarli. Si preferisce invece gestire un certo disturbo per il quale i protocolli indicano una precisa terapia, sicuri di agire anche contro il suicidio. Una visione fenomenologica del suicidio è invece auspicabile per meglio comprendere la vergogna, la colpa, l’abbandono, la disforia e il sentimento di disperazione (hopelessness).

    Probabilmente, eseguendo un’indagine ad hoc sul suicidio e sottolineando il ruolo delle emozioni negative si puó fare di piú.

    Dovremmo essere empatici e “risuonare” con il dolore mentale del paziente considerando “l’unicitá” della sua sofferenza. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per cambiare anche di poco il dolore da ‘intollerabile’ e ‘insopportabile’ a ‘quasi sopportabile’ e ‘tutto sommato sopportabile’; nel far questo l’enfasi dovrebbe essere sui bisogni psicologici frustrati dai quali origina la sofferenza del soggetto a rischio.

                                                                                                                             (da M.Pompili)

  4. fibro

del SUICIDO … 2 – il dolore mentale

 

 

La suicidologia é la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio  e alla sua prevenzione (essa si riferisce anche a tutte le manifestazioni correlate al fenomeno suicidario). Il termine (e il concetto) fu introdotto da Edwin Sheneidman (1964). La suicidologia dunque, diversamente da altre scienze, quali ad esempio quelle del comportamentismo, non include meramente lo studio del suicidio ma enfatizza la prevenzione dell’atto letale; in altre parole incorpora interventi appropriati per prevenire il suicidio, una caratteristica non sempre riconoscibile ed esplicitata nei notevoli contributi sul tema.

Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale insopportabile , che chiama psychache (Shneidman 1993a), che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce che le domande chiave possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un dolore mentale insopportabile, allora il compito principale di colui che é deputato ad aiutare l’individuo é alleviare questo stato con ogni mezzo a disposizione. (Shneidman 2004; 2005). Se infatti si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere. Shneidman (1993a) inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, ecc. hanno origine dai bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che ne deriva ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalitá e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come  affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati, compresi e ricevere conforto. Shneidman (1985) ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione.

La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in una stato chiamato genericamente stato perturbato, nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto suicida (Pompili, 2009) . Shneidman (1996) ha inoltre  suggerito che il suicidio è meglio comprensibile se considerato non come un movimento verso la morte ma come un movimento di allontanamento da qualcosa che è sempre lo stesso: emozioni intollerabili, dolore insopportabile o angoscia inaccettabile, in breve psychache. Se dunque si riesce a ridurre, ad intaccare e a rendere più accettabile il dolore psicologico quell’individuo sceglierà di vivere.

Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni per risolvere un certo problema che causa sofferenza estrema. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; ma alla fine, fallite tutte le altre possibilitá, la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.

                                                                                                                             ( da M.Pompili)

fibro

 

 

 

del SUICIDIO……1

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera il suicidio come un problema complesso, non ascrivibile ad una sola causa o ad un motivo preciso. Sembra piuttosto derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali. Il suicidio, nell’ambito della salute pubblica, è un grave problema che potrebbe essere in gran parte prevenuto; costituisce la causa di circa un milione di morti ogni anno, con costi stimabili in milioni di euro, secondo quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanitá. Nel 2000, circa un milione di individui ha perso la vita a causa del suicidio, mentre un numero di individui variabile da 10 a 20 volte più grande ha tentato il suicidio. Ciò rappresenta in media una morte per suicidio ogni 40 secondi ed un tentativo di suicidio ogni 3 secondi.

Questo ci porta a concludere che muoiono più persone a causa del suicidio che per i conflitti armati di tutto il mondo e per gli incidenti automobilistici. In tutte le nazioni, il suicidio è attualmente tra le prime tre cause di morte nella fascia di età 15-34 anni, infatti, pur riguardando tutte le fasce di età, a tutt’oggi è un fenomeno che interessa maggiormente i giovani. E’ dunque un fenomeno che non può essere ignorato, e vi è la necessità di infrangere quel silenzio deleterio che si sviluppa intorno a tale tema. Secondo quanto affermato da un documento dell’OMS, il suicidio è un problema di grande entità nei paesi europei, soprattutto tra i nuovi stati indipendenti dell’Europa dell’est.

Lo studio scientifico del suicidio, noto come suicidologia, può essere fatto risalire al 1957, quando Shneidman e Farberow pubblicarono il loro articolo sulle note di suicidio. Riproduzioni di note di suicidio sono state pubblicate almeno dal 1856 (Shneidman, 1979), ma ciò che rese unico lo studio di Shneidman e Farberow fu l’uso pionieristico di note di suicidio di “controllo”, cioè note di suicidio simulate, fornite da individui non suicidi, messe a confronto “in cieco” con note di suicido vere. Il Metodo di Differenza di Mill, il fulcro della scienza induttiva, fu per la prima volta applicato al campo del suicidio.Ognuno dovrebbe saper riconoscere i segnali d’allarme per il suicidio.

Possibili SEGNALI D’ALLARME. Spesso il soggetto a rischio di suicidio si presenta con pensieri identificabili con le seguenti espressioni:

  • “Sono triste, depresso”,

  • “Vorrei essere morto”,

  • “Mi sento solo”,

  • “Non riesco a fare nulla”,

  • “Non posso più andare avanti così”,

  • “Sono un perdente”,

  • “Gli altri staranno meglio senza di me”.

Colui che desidera o minaccia di farsi male o di uccidersi ed è in cerca di mezzi come armi da fuoco, farmaci o altro, e che parla della morte, cosa insolita per tale persona, dovrebbe indurre la considerazione di un alto rischio di suicidio.

Inoltre, un alto rischio di suicidio è associato a sentimenti di disperazione, rabbia incontrollabile; alla ricerca di vendetta, all’agire in modo imprudente o rischioso e senza meditare sulle conseguenze di un certo comportamento, al sentirsi intrappolati e sentirsi senza via d’uscita. Il rischio è poi associato al consumo di alcol e droga; all’allontanamento dalle amicizie, dalla famiglia, e dai contatti sociali; ansia, agitazione e disturbi del sonno sono sempre identificabili in presenza di rischio di suicidio.

 L’individuo a rischio spesso riferisce cambiamenti marcati del tono dell’umore, mancanza di motivazione nel vivere e della non identificazione del senso della vita. Il suicidio si può prevenire. La maggior parte degli individui con rischio di suicidio vuole assolutamente vivere; costoro non riescono, però, a trovare possibili alternative ai loro problemi. La maggior parte degli individui emette chiari segnali inerenti alla loro intenzione suicida, ma spesso gli altri non colgono il significato di tali messaggi, oppure non sanno come rispondere alla loro richiesta d’aiuto. Parlare del suicidio non induce nell’altro un proposito suicidario; al contrario, l’individuo in crisi e che pensa al gesto si sente sollevato dal poterne parlare, ed ha l’opportunità di sperimentare un contatto empatico. Il suicidio affligge profondamente gli individui, le famiglie, i luoghi di lavoro, la comunità e la società nel suo complesso.

Coloro che perdono un loro caro a causa del suicidio, rimangono a lungo traumatizzati e sono anch’essi a rischio di suicidio. La sfida della prevenzione del suicidio dovrebbe essere intrapresa dalla collettività. Gli addetti alla salute mentale e tutti gli operatori che entrano in contatto con la popolazione generale, per fornire servizi di assistenza, consulenza e supporto, dovrebbero essere coloro che veicolano informazioni chiare e precise sul riconoscimento e sulla gestione del soggetto suicida. Campagne di sensibilizzazione a livello nazionale proposte dalle autorità competenti dovrebbero essere estese a tutta la popolazione, rispettando le guidelines proposte ai mass-media per la diffusione di servizi e reportage riguardanti il fenomeno suicidario.

fibro

 

cosa è cambiato con l’arrivo del Covid19….. nelle nostre vite

L’Associazione Primola di Imola offre questo spazio per dialogare sui cambiamenti che il Covid 19 ha portate nelle nostre vite . Intervengono oltre a me : Mario Baldini Presidente Associazione Primola di Cotignola, dr.ssa Jessica Lacchini Sessuologa. Modera Samuele Staffa Giornalista di Settesere.

Ancora un’occasione per riflettere

ARTE TERAPIA E DOLORE CRONICO IN ORTOPEDIA

COME L’ARTE TERAPIA PUÒ AIUTARE CHI SOFFRE DI DOLORE CRONICO

Per i pazienti che soffrono di dolore cronico , può essere facile concentrarsi solo sul dolore estremo che stanno provando e sui modi per alleviare il dolore. Questo può rendere difficile trovare un trattamento per alleviare i sintomi associati al dolore cronico.

La colorazione, a quanto pare, può avere un grande impatto terapeutico su coloro che soffrono di molti diversi tipi di dolore fisico e può aiutare a controllare sintomi come dolore cronico, ansia e depressione. La colorazione fa bene alla mente e al corpo! Ecco perché:

BENEFICI DELL’ARTE TERAPIA PER IL TRATTAMENTO DEL DOLORE

Quando si tratta di metodi di terapia dell’artrite, perché non colorare al di fuori delle linee? Secondo Harvard Health :

“L’arte terapia aiuta a ridurre la percezione del dolore allontanando la tua attenzione mentale dallo stimolo doloroso. Non è semplicemente una distrazione, ma piuttosto un modo per insegnarti come rilassare e modificare il tuo umore, quindi il dolore non controlla il tuo stato emotivo. ” 

Mentre l’ARTE TERAPIA non sostituisce la necessità di terapia fisica e antidolorifici, offre ai pazienti che soffrono di dolore la possibilità di rilassare la mente e ottenere una piccola pausa mentale dal pensare al proprio dolore. Può anche aiutare a esercitare le mani e le braccia in un movimento facile.

Uno studio di The Arts in Psychotherapy ha scoperto che la partecipazione a sedute di ARTE TERAPIA  per una durata  media di 50 minuti può migliorare significativamente l’umore dei pazienti e abbassare i livelli di dolore e ansia.

COSA SUGGERISCE L’ARTE TERAPIA

L’arte terapia è praticata da un’ARTE TERAPEUTA registrato o certificato. L’ARTE TERAPEUTA  ti aiuterà a capire il tuo dolore e a superarlo guidando il tuo processo creativo. Questo può includere dipingere un’immagine del tuo dolore in un determinato giorno o lasciare che la tua immaginazione si scateni.

Non è necessario essere un artista per beneficiare della terapia artistica. Inoltre,una volta guidati e aiutati dall’ARTE TERAPEUTA , i pazienti con dolore di tutte le età possono   portare ciò che hanno appreso praticamente ovunque. Che sia seduto, in piedi, sdraiato sul letto o in attesa dell’appuntamento del medico.

                                                                            ( 17/9/ 2019 Orthopedic Specialty Group, USA)

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PAURA DELLO SPORCO E CORONAVIRUS

 

Pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi, quali ad esempio rituali di pulizia, possono infatti sfociare in una vera e propria forma di ansia patologica, derivante da precedenti vulnerabilità: la Rupofobia. Il termine Rupofobia deriva dal greco rupos: sporco. Le ossessioni rupofobiche riguardano la paura della contaminazione, della possibilità di contrarre una malattia ed il disgusto verso certi ambienti o situazioni potenzialmente contagianti. I pensieri ossessivi sono intrusivi, ripetitivi e persistenti e si legano a compulsioni, quali rituali messi in atto in maniera continuativa allo scopo di contrastare la paura del contagio. Tali agiti forniscono sollievo solo temporaneo, per poi rinforzare la credenza disfunzionale sottostante: l’intollerabile rischio di poter essere stati infettati. Il dubbio di non aver effettuato perfettamente i rituali di pulizia provoca ansia, fino ad arrivare anche a forme di panico. Le strategie di evitamento conseguenti possono essere pervasive, causando difficoltà relazionali e sociali profonde e disfunzionali. I rituali di pulizia rigidi ed inflessibili rappresentano il tentativo di rimuovere ogni minima possibilità di contaminazione, che può minacciare l’idea di salute fisica. La fobia del contagio è dunque una forma patologica di paura persistente che si differenzia dal naturale timore di contrarre una malattia (Rachman, 2004). Le credenze centrali sottostanti riguardano il desiderio di controllo assoluto sul proprio stato di salute, così come accade nell’Ipocondria: non si cerca di perseguire uno scopo in positivo, ma di evitare l’opposto, attraverso strategie di controllo percettivo, cognitivo e comportamentale. L’attenzione selettiva, i pensieri automatici negativi e le interpretazioni catastrofiche, le immagini terribili ed i comportamenti di evitamento caratterizzano tale patologia. Nella fobia del contagio manca quindi la ‘regola dell’interruzione’: non si è mai davvero convinti di essere al sicuro, quindi non si possono fermare i rituali. Nulla è mai abbastanza pulito ed igienizzato.La fobia dello sporco, così come tutti i disturbi psicologici, può avere differenti cause. Similmente all’Ipocondria, la Rupofobia presenta derivati genetici, esperienziali – vissuti traumatici ed episodi drammatici durante l’infanzia – e sociali, con l’apprendimento di modelli di comportamento simili all’interno del nucleo familiare (Fallon et al., 2000). I genitori del fobico sono spesso critici, eccessivamente perfezionisti, con aspettative elevate ed alti standard; l’obbligo a regole rigide ed imprescindibili, soprattutto verso l’ordine e la pulizia, una moralità inflessibile ed imposta, amplificano sentimenti quali ansia e disgusto nei bambini. Il rupofobico sperimenta fin da piccolo insicurezza, timore delle scelte e delle responsabilità, ansia rispetto alle novità. L’idea che il rupofobico costruisce di sé è di una persona debole, insicura, particolarmente soggetta a patologie fisiche e psichiche. Inoltre, oggi vediamo come l’influenza dei mass media colpisca soprattutto chi è più vulnerabile e fragile, contribuendo ad alimentare la fobia.Nel periodo attuale prendere precauzioni rispetto ad eventuali contagi è necessario, ma potrebbe anche slatentizzare (rendere manifesto quanto già in essere) delle forme di psicopatologia. Ad oggi, non è facile distinguere un rupofobico da chi si attiene scrupolosamente alle direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita del rupofobico è insoddisfacente e particolarmente complessa, specialmente in questo periodo storico. La caratteristica principale dello stato mentale che presenta l’individuo affetto da Rupofobia è legata all’estremo desiderio di controllo dello sporco, totale ed assoluto, impossibile da raggiungere, che intensifica le emozioni negative. Ognuno di noi è oggi chiamato a fare prevenzione e a comportarsi in maniera scrupolosa ed attenta, ma coloro che erano già particolarmente suscettibili alle varie forme di contaminazione – come i rupofobici – hanno trovato conferma delle loro credenze centrali: i pensieri relativi al timore di essere contagiati o di contagiare, oggi si mostrano maggiormente credibili, reali. E’ quindi necessario chiedersi in che modalità il loro stile di vita si modificherà a seguito della pandemia vissuta oggi. In futuro probabilmente per ciascuno di noi diventerà particolarmente difficoltoso mettere in atto atteggiamenti e comportamenti verso gli altri e verso il mondo esterno simili al passato: stringersi le mani, abbracciarsi, baciarsi o frequentare luoghi affollati saranno gesti legati al timore di non essere al sicuro. Individui affetti da Rupofobia troveranno probabilmente ancora più difficoltà nell’intraprendere una vita adattiva, equilibrata e serena, sia a livello personale che sociale. Le convinzioni relative alla pericolosità di certi agiti saranno rinforzate, con il conseguente aumento dell’intensità emotiva negativa.

Poter visualizzare il proprio disagio in modo da lavorarci e poterlo nel tempo trasformare è ciò che una buona TERAPIA ESPRESSIVA può fare. Oltre a visualizzare il disagio , potremo andare a lavorare sulle manovre di evitamento nella loro rigidità e sui tentativi di controllo ossessivo delle possibilità di contagio. Ci occuperemo anche del rimurginio, simile a un topolino che corre nella famosa ruota circolare, e andremo a facilitare e promuovere l’accettazione del rischio . Dunque anche del rischio di potersi ammalare. Sarà cura del terapeuta utilizzare modalità e timing adeguati alla delicatezza che richiede la sofferenza che la persona porta in questo delicatissimo momento .

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